Gianni Berengo Gardin ci ha lasciati; lo conoscevo da tanti anni e penso che il miglior omaggio che possiamo fargli è pubblicare un suo portfolio, molto bello e poco conosciuto, che risale ad anni fa, insieme a quella che è stata probabilmente una tra le sue ultime interviste.
Sono le foto del ballo delle debuttanti che abbiamo pubblicato su Progresso Fotografico #77
Milano, anni '80 - Ballo delle debuttanti. Gianni Berengo Gardin
Sei stato accostato a Cartier Bresson, ti fa piacere?
Direi proprio di si! Henry l’ho conosciuto personalmente e ho la sua dedica su un libro che mi ha regalato: “A Gianni, con amicizia e ammirazione.”
Avere l’ammirazione Cartier Bresson… avrei potuto morire la mattina dopo! E’ un riconoscimento straordinario.
E hai sempre con te la fidata Leica?
Sempre. Anche se adesso scatto raramente, non si sa mai che mi capiti l’occasione buona!
Nel mio genere di fotografia le occasioni si presentano quando meno te l’aspetti: a volte ci si porta dietro la fotocamera senza fare un solo scatto, altre volte nascono foto importanti.
E’ la tua anima da fotoreporter…
Amo troppo la fotografia e devo riconoscere che se sono arrivato a 94 anni lo devo anche alla fotografia, che mi è stata sempre d’aiuto nei momenti belli e in quelli brutti della vita.
Ti capisco. Hai cambiato idea sulle fotocamere digitali?
No, non ho cambiato idea; a me non piacciono. Ma capisco che in certe situazioni sono molto utili: fai una foto, e un istante dopo la puoi spedire al giornale, alla rivista. Io però rimango fedele della pellicola perché, anche se devo aspettare i tempi dello sviluppo e della stampa, la cosa non mi crea problemi; anzi, esaminare i provini a contatto col lentino, scegliere lo scatto buono, lo scatto decisivo come diceva Cartier Bresson, è un piacere senza pari!
Ai ragazzi invece dico sempre di pensare prima di fotografare e di far scattare l’otturatore solo se ne vale la pena.
Fotografando in pellicola disporre di soli 36 scatti non è un limite, ma un vantaggio, perché ti spinge a pensare a cosa stai facendo. Col digitale invece scatti a mitraglia sperando di azzeccare la foto buona, ma così non si impara nulla.
Rivedere i propri scatti permette di migliorarsi; io ho imparato anche leggendo buoni libri e guardando le fotografie di bravi fotografi, riflettendo sulle loro immagini
Io poi sono dell’idea che la fotografia è “artigianato”; ho fatto sessant’anni di camera oscura dove si lavora con la testa, ma anche con le mani; vedere l’immagine apparire piano piano nella bacinella è una soddisfazione incredibile.
Il male del digitale è che non porta a riflettere prima di premere il pulsante: scatti, scatti, poi speri che una foto sia venuta bene. E poi chi fotografa in digitale in genere riguarda subito la foto sul monitor e così magari perde l’opportunità di fare un secondo, un terzo scatto, che magari sarebbero migliori
Ricordo la pubblicità di un produttore che aveva come head-line “non pensare, scatta”.
Per la fotografia questo è un periodo strano: non ha mai suscitato tanto
interesse, tutti scattano col telefonino, ma le foto sono banali e questo non è
un bene per la fotografia: siamo sommersi da fotografie poco interessanti, poco
utili e che non si riguardano.
Ho anch’io un telefonino, ma non lo uso per fotografare; le fotografie si fanno
con la macchina fotografica!
C’è anche da dire che oggi un ragazzo può comprare una buona Nikon a pellicola con 200-300 euro, o una Leica con 1200-1300 euro, fotocamere in buono stato e revisionate; un ragazzo non ha 4.000 – 6.000 euro per comprare una moderna digitale ed è anche per questo si vendono molte macchine a pellicola
La tua fotografia si
caratterizza per l’impegno sociale e il taglio da reporter; com’è stata l’evoluzione
del tuo lavoro?
Ho cominciato come fotoamatore nel 1953 / 1954, e dopo sei anni ho scoperto di avere uno zio in
America, molto amico di Cornell Capa, il fratello del Grande Capa. Mio zio gli disse:
“Ho un nipotino a Venezia, che libri gli consigli?”
Cornel mi consigliò i libri di Dorothea Lange e James Smith; quest’ultimo mi ha
impressionato e l’ho amato più di ogni altro.
E mi ha anche fatto l’abbonamento a Life! Oltre che a Infinity, la rivista
dei professionisti americani. E’ così che ho scoperto il reportage vero, non le
foto, e da fotoamatore che voleva fare della fotografia d’arte e mi sono trovato
a fare il lavoro di reporter; reportage soprattutto sociale, ma non solo,
perché penso che la fotografia sia sostanzialmente sociale: anche se fotografi
principi o attori fai un lavoro sociale, perché fanno sempre parte della
società in cui viviamo.
Ho sempre cercato di rappresentare la commedia umana, la vita dell’uomo e della
donna in generale, nel privato come nel lavoro: raccontare la loro vita sotto i
diversi gli aspetti
E per quanto riguarda la Magnum cosa ci puoi dire? Ha rappresentato una svolta nella tua carriera?
Non sono entrato nella Magnum. Me l’avevano offerto perché una volta per entrare nell’agenzia occorreva essere presentati da due fotografi Magnum; all’epoca Elliott Erwitt e Koudelka si erano offerti di presentarmi, ma io non ho accettato perché mi faceva paura il confronto con i grandi fotografi della Magnum che mi mettevano un po’ in soggezione. Come persona sono molto timido, anche se quando fotografo, con la macchina in mano, so essere anche aggressivo.
E poi non parlavo sufficientemente bene l’inglese!
E come hanno reagito Erwitt
e Koudelka? Immagino che loro pensassero fosse impossibile rifiutare una simile
opportunità.
Mi volevano far entrare per amicizia e perché stimavano
il mio lavoro, ma hanno accettato la mia scelta.
Parliamo ora del lavoro che hai fatto
per la Croce Rossa a cui si riferiscono queste foto.
Era il 1984 e Galligani, allora responsabile dei servizi fotografici e art-director
di Epoca, mi aveva incaricato di andare a Monza e di fotografare il ballo delle
debuttanti, organizzato e condotto da Maria Pia Fanfani: un evento che
rappresenta il loro ingresso in società ed è importante perché vede la
partecipazione di molte personalità della città di Milano, sia della politica
che dell’industria.
Per questo incarico, quali erano le richieste?
Ma hanno dato una completa liberà creativa e Galligani mi dedicò addirittura 8 pagine su Epoca, con due foto in doppia pagina. È stata una vera soddisfazione.
Inoltre quel lavoro ha rappresentato l’inizio della mia collaborazione con Epoca come fotografo esterno, durata due o tre anni
Osservando questi ritratti, alcuni ragazzi, ma anche i genitori, appaiono lusingati, altri indifferenti, altri emozionati. In generale, come è stato il rapporto con loro?
Nel complesso buono, erano contenti e il coinvolgimento forte.
Poteva essere la prima o la seconda edizione del Ballo.
Di queste foto trovo molto bella l’inquadratura dall’alto in cui si vedono le file dei ballerini che scendono e si incrociano: dove ti sei posizionato per questo scatto?
Al primo piano del palazzo di Monza. Ho fatto due o tre scatti dall’alto, poi altri interessanti basso, dei gruppi, dei giovani, della gente che ballava .. insomma ho documentato i vati momenti dell’evento
Dopo il Ballo delle Debuttanti ho fotografato anche altri eventi di danza; da ragazzino mi piaceva ballare, che mi aiutava anche nel rapporto con le ragazze. Anche se poi ho smesso, il ballo mi ha sempre affascinato.
C’è una foto che preferisci
nel tuo archivio?
Quando faccio un lavoro in genere ci sono due o tre scatti che considero
migliori e li scelgo esaminando i fogli dei provini a contatto.
Ho due milioni di scatti in archivio dove c’è del buono, ma anche cose che non mi piacciono; è un archivio, ci sono immagini di vario tipo. Ci sono stampe e negativi con cui dopo tanti anni ho fatto un libro con Contrasto scegliendo 120 scatti inediti, immagini che all’inizio avevo scartato e poi con gli anni, come il buon vino, il tempo mi ha aiutato a rivalutare, a riscoprirle. Ritrovare foto che ai tempi avevo scartato è un piacere enorme.
Il libro ha dato vita a una mostra a una mostra a Brescia, in occasione di Brescia Capitale Europea della Cultura, e poi a Udine e Alessandria.
C’è una fotografia che avresti voluto fare, ma che ti è stato impossibile?
Parlando in generale, ce ne sono tante, tanti lavori che avrei voluto fare… ma sono sempre stato selettivo: i lavori che non mi piacevano non li accettavo.
Intervista a cura di Paolo Namias
da Progresso Fotografico #77