Partiamo con una domanda difficile, cos’é la videoarte?
E’ un linguaggio visivo e sonoro che usa il video come mezzo espressivo, ma senza i vincoli del cinema, della televisione o dei social media. È uno spazio creativo in cui la narrazione può esserci, ma non è mai obbligatoria, né lineare. A volte si tratta di racconti frammentati, altre volte di esperienze visive pure, che non cercano di comunicare una storia ma un’atmosfera, una sensazione, un’idea.
“Coseggiare” è una definizione che mi piace perché rende bene l’idea di un fare che non ha per forza un fine immediato, ma che esiste nel suo stesso manifestarsi. La videoarte spesso è questo: un’indagine libera sul linguaggio audiovisivo, sul tempo, sul corpo, sulla società che abita il mondo dell’arte contemporanea e soprattutto senza preoccuparsi di essere “intrattenimento”.
Per alcuni è narrazione spezzata, per altri puro esperimento visivo-sonoro. In ogni caso, è un campo aperto.
Come e quando hai pensato di dedicarti a una tematica cosi difficile?
È stato più un percorso, una serie di incontri e visioni che mi hanno portata a interrogarmi sul linguaggio audiovisivo sperimentale e sulle installazioni video che mi hanno sempre affascinata. Il potere di una narrazione sperimentale, non didascalica e coinvolgente che affascina l’occhio e scuote nel profondo.
Ho studiato arti visive e ho iniziato la mia carriera come video artista nel 2001 ispirandomi ad artisti come i Granular Synthesis, poi a un certo punto mi sono accorta che in Italia mancava uno spazio stabile dedicato alla videoarte: c’erano artisti bravissimi, opere di qualità, ma poche occasioni per farle conoscere, per condividerle, per distribuirle. Così nel 2008 ho fondato insieme ai primi compagni di viaggio Visualcontainer, con l’idea di creare un archivio e una piattaforma di visibilità sia per gli artisti emergenti, sia per i middle carrier.
È stata una sfida bellissima che ci ha consentito di mettere in contatto mondi, generazioni e linguaggi diversi. Il desiderio di condividere quello che succede nel mondo della videoarte ha sempre avuto il sopravvento su ogni difficoltà incontrata.
ArsLife. Tony Oursler presentata al PAC di Milano
Open Obscura. A cura di Gianni Mercurio e Demetrio Paparoni.
Parlaci di Visual Container: chi siete, cosa fate e perché avete scelto questo nome
Visualcontainer è un progetto indipendente nato per sostenere e diffondere la videoarte contemporanea italiana e internazionale. Siamo un gruppo di professionisti che condividono la passione per le forme sperimentale di espressione audiovisiva.
Gestiamo la
distribuzione nazionale e internazionale di opere video, organizziamo mostre,
progetti curatoriali e collaborazioni con festival, musei, spazi indipendenti e
università.
Abbiamo anche una piattaforma di streaming online gratuita e in pay-per-view,
VisualcontainerTV, che è un po’ la nostra finestra sul mondo dal 2009, dove
curiamo e ospitiamo programmazioni tematiche per far conoscere la videoarte, ovunque
nel mondo.
Infine c’è Visualcontainer, lo spazio fisico dove dal 2010 presentiamo mostre di videoarte, screening dai più importanti festival di videoarte a Milano, ora nel quartiere di Niguarda.
Il nome Visualcontainer vuole richiamare l’idea di “contenitore visivo”: un luogo aperto, flessibile, in cui opere video di artisti diversi per stile, poetica e provenienza possano trovare spazio. Un contenitore flessibile, che cambia nel tempo, ma che dà priorità alla qualità e all’integrità dei progetti.
Il primo film realizzato da Guy Debord nel 1952 Hurlements enfaveur de Sad suscitò indignazione: sono 64 minuti in cui si alternano momenti di silenzio, con lo schermo completamente nero, e momenti di schermo bianco in cui si sentono recitare contenuti di romanzi e del codice civile; lo si può considerare videoarte?
Formalmente no, non è videoarte perché si tratta di un film in pellicola e nasce nel contesto del cinema sperimentale e della cultura lettrista e situazionista. Ma concettualmente possiamo dire che anticipa alcune riflessioni fondamentali per la videoarte.
Le culture lettrista e situazionista sono due movimenti d’avanguardia strettamente correlati, nati nel dopoguerra a Parigi, che hanno avuto un profondo impatto sull’arte, la filosofia e la politica del XX secolo.
Debord decostruisce il cinema, sottraendo l’immagine e il suono, costringendo lo spettatore a confrontarsi con il vuoto, con l’attesa, con il tempo che passa senza eventi narrativi. È un gesto radicale, politico e poetico insieme.
La videoarte, che nascerà poco più di decennio dopo, si muove su coordinate simili: decostruzione dei linguaggi dominanti, critica ai media di massa, riflessione sul tempo e sull’esperienza dello spettatore.
Quindi, pur non essendo tecnicamente videoarte, quel film di Debord è un importante precursore concettuale.
Noi italiani abbiamo una tradizione nei film d´artista con Patella, Schifano, Nespolo e altri. Qual è la linea di demarcazione tra i film d´artista e la video arte, e chi sono gli attuali videoartisti?
La distinzione principale è tecnica e storica. I film d’artista nascono negli anni Sessanta e Settanta, quando il supporto era la pellicola e il dialogo era con l’arte concettuale, il pop, il minimalismo. Queste opere erano spesso legate all’idea di cinema espanso, destrutturato, e avevano un forte legame con la pittura, la scultura, la fotografia.
La videoarte nasce in un altro contesto, è figlia dell’avvento del videotape e si sviluppa con la Sony Portapak, leggera e portatile: i suoi pionieri sono Nam June Paik, Bruce Nauman, Joan Jonas che usano il video come strumento immediato, personale, spesso autoprodotto.
In Italia la videoarte emerge tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta con artisti come Studio Azzurro, Fabrizio Plessi, Gianni Toti; successivamente negli anni Novanta e Duemila giovani autori ampliano i confini del linguaggio video verso l’installazione multimediale, i video immersivi, l’animazione sperimentale e l’ibridazione con il digitale.
La videoarte trova spazio principalmente nei musei d’arte contemporanea, nei festival internazionali di media art, negli spazi no-profit e negli eventi interdisciplinari.
Chi é il videoartista? E’ un autore/artista che si esprime anche tramite il video, o soprattutto tramite questo?
Il videoartista è
in primo luogo un artista visivo. Alcuni lavorano quasi esclusivamente con il
video, altri integrano il video in pratiche più ampie che includono
installazioni, performance, ambienti immersivi, fotografia, arte digitale.
Oggi il video non è più un linguaggio isolato, ma dialoga con tanti altri
media. Quindi il videoartista contemporaneo è spesso un autore transmediale, usa il video come uno dei
tanti strumenti per esplorare il mondo.
Qual è il pubblico della videoarte e chi sono i suoi acquirenti?
E’ molto più eterogeneo di
quanto si pensi. Ci sono ovviamente appassionati e studiosi di arte
contemporanea, ma anche persone curiose che si avvicinano a un’opera video
visitando una mostra, o navigando online, e rimangono colpite dall’esperienza
visiva che questo linguaggio può offrire.
C’è un pubblico di giovani artisti molto attento ai linguaggi audiovisivi,
abituato a muoversi tra i formati digitali, ma anche di collezionisti e
operatori culturali che cercano opere capaci di interrogare il nostro rapporto
con le immagini e la tecnologia.
Gli acquirenti, invece, sono principalmente musei, fondazioni, festival e collezionisti privati particolarmente sensibili alla ricerca artistica contemporanea. Il mercato della videoarte è ancora di nicchia, soprattutto in Italia, ma è in crescita.
Da pochi anni è morto uno dei videoartisti più famosi, se non il più famoso, Bill Viola.
Bill Viola ha avuto il grande merito di portare la videoarte all’attenzione del grande pubblico e delle istituzioni museali più importanti. Le sue opere sono potenti, emotive, accessibili pur nella loro complessità linguistica e formale. Sono un ponte tra la complessità del linguaggio e lo sguardo del grande pubblico e tra il misticismo e la tecnologia.
Bill Viola non è però l’unico nome fondamentale della video arte; prima di lui ci sono stati pionieri come Nam June Paik, Bruce Nauman, Joan Jonas, Gary Hill, Dara Birnbaum, John Samborn, seguiti da artisti che hanno lavorato su fronti diversi: dalla performance all’installazione interattiva, dalla critica sociale al linguaggio poetico.
Oggi il panorama contemporaneo è molto più ampio e diffuso, frammentato in una pluralità di approcci che spaziano dalla realtà virtuale all’intelligenza artificiale, fino alle ibridazioni con la Game Art.
Un consiglio per chi si avvicina a questo tipo di espressione artistica?
Andare a Festival di videoarte
e approfondire a piacere, studiare gli artisti che hanno fatto la storia di
questo linguaggio, ma allo stesso tempo sperimentare in prima persona, anche
con mezzi semplici.
La libertà linguistica e di espressione che offre la sperimentazione
audiovisiva è molto stimolante, ma spesso è un’arma a doppio taglio per chi vi si
avvicina con la presunzione di creare subito “opere di videoarte”. Ci vuole
tempo e un buon background visivo e culturale.
Occorre confrontarsi con altri artisti, curatori, teorici: la videoarte vive di dialogo e di confronto critico, come tutte le Arti.
Descrivici il progetto di Visual Container.
Visualcontainer è uno
spazio aperto a chiunque voglia confrontarsi seriamente con il linguaggio video
sperimentale nelle sue ibridazioni con le “nuove tecnologie”. Siamo sempre
disponibili a fornire gli strumenti per avvicinarsi alla videoarte, a collaborare
con curatori, ad accogliere proposte di rassegne o progetti speciali.
Chi vuole può seguirci su VisualcontainerTV, la nostra web TV gratuita, o
partecipare alle attività di formazione e promozione che organizziamo.
Crediamo nel dialogo e nella condivisione come strumenti fondamentali per
diffondere questa arte, che in Italia è ancora poco diffusa a livello
istituzionale.
Ora come mio solito, chiedo a te di farmi una domanda
Qual è l´ultima opera audiovisiva che ti ha spiazzato, e perché?
Rimasi molto colpito dalle opere di Tony Oursler in mostra nel 2011 al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano. Diciamo che la sua opera esprimeva quel senso artistico che negli anni Settanta chiamavano “intermedia”, ovvero diversi generi artistici che si mischiavano tra loro.
Di quella mostra ricordo ancora bene la immagini di occhi spalancati, di bocche giganti proiettate su grosse sfere, voci, suoni pazzeschi. Diciamo che mi riportò alla mia infanzia, quando ogni cosa é fonte di stupore, un fantastico stato di grazia. Posso dirti che questo genere di sensazioni oggi le provo con la videoarte.
Giuseppe Ferraina